Una cucina schietta e precisa da una parte e una scelta di vini ricca e variegata dall’altra. Una trattoria, certo, ma Menabò è qualcosa di più. Incastonato nel quartiere di Centocelle a Roma. Menabò è il risultato di un progetto, un ideazione, un sogno dei fratelli Paolo e Daniele Camponeschi.
“Ho aperto Menabò tre anni fa, quindi ero già abbastanza grandicello. Faccio 40 anni quest’anno. Sia io che Paolo eravamo maturi dal punto di vista professionale e soprattutto a livelli di obiettivi personali. Eravamo pronti a metterci in proprio.”
Vino e cucina quindi, ma da Menabò queste due componenti hanno lo stesso peso la stessa importanza, entrambe al servizio dell’esperienza conviviale dei clienti. Daniele, formatosi in cucina, ma ora oste, mi ha raccontato tutti i retroscena del suo locale e molto, molto di più.
“In realtà ti devo fare una premessa: un paio di anni prima che cominciassi a fare il corso all’Etoile Academy con Gianluca Aresu e prima di spostarmi nelle pasticcerie dei ristoranti, io e mio fratello Paolo avevamo già cominciato a elaborare questo progetto. Una sera a cena nel bellissimo ristorante Laite a Sappada, uno tra i più belli tra gli stellati delle dolomiti. E in questo progetto però, paradossalmente, il mio ruolo era già sagomato sulla sala.”
Daniele Camponeschi, Menabò e Centocelle
Mi parli di te, prima dell’apertura di Menabò?
Prima di Menabò ho lavorato nella ristorazione per una decina di anni come pasticcere nei ristoranti. Ho fatto un percorso che è stato sempre a metà tra la scuola e la formazione diretta sul campo. Ho frequentato un corso alla Etoile Academy in Tuscania con Gianluca Aresu. Lui è un grande maestro che mi ha dato le basi della pasticceria italiana e internazionale.
Dopo sono andato a lavorare per la prima volta in un ristorante, in realtà un’enoteca con cucina e gastronomia. Quindi il discorso sull’enoteca e sul vino è sempre stata una costante nel mio percorso ristorativo. Sono sempre stato appassionato del mondo del vino in generale, di tutto quello che ruota intorno al mondo del vignaiolo come artigiano, come uomo integrato anche nel tessuto produttivo della natura, non solo come maestro vinaio che è in grado di portare alla luce un grandissimo vino.
Nel primordiale abbozzo del progetto gastronomico di Menabò ero già collocato tra il vino e la sala. Per un certo periodo questo discorso è stato po’ un percorso parallelo, perchè ho sempre pensato che per fare questo tipo di lavoro devi conoscere a fondo i meccanismi basilari del funzionamento di un ristorante. La cucina è senz’altro uno degli asset fondamentali, nel senso non sapere come funziona una cucina professionale, come funziona un magazzino, come si fa un menu, come si elabora il food cost, come si tesse il rapporto con i fornitori, quali sono le proprie preferenze o le proprio idiosincrasie secondo me non porta molto lontano.
È un mestiere molto complesso in cui uno è bene che capisca le logiche più lontane dal proprio lavoro. Anche se oggi mi occupo di vino e di sala, quegli anni passati in cucina hanno dato una formazione su una serie di temi che oggi mi tornano molto utili. Sono più padrone della situazione, non mi relego in quello che è il mio ambiente. Lavorare nei ristoranti mi ha dato una visione a tutto tondo sulla progettazione del locale e credo che sia uno dei motivi anche del successo che ha avuto Menabò. Soprattutto nel progetto che sto avviando con tanti altri colleghi che non c’entra niente con Menabò.
Di che si tratta?
Siamo diversi colleghi, ognuno che si occupa di una parte di questo progetto. Abbiamo chiamato Collettivo Gastronomico questa iniziativa di ristorazione e intrattenimento, di bar e performance, durante il periodo estivo alla città dell’altra economia. È un modo di guardare un po’ avanti, di non restare chiusi nel proprio locale e rispondere all’esigenza di creare una rete di impresa per fare un po’ squadra e cercare di tenerci tutti quanti in piedi. Alla ristorazione abbiamo deciso di fare delle attività collaterali che sono musica con una web radio, mostre fotografiche. L’obiettivo è creare una piccola piazza di paese dove fare diverse cose tra cui mangiare un boccone. Mettendo un valore aggiunto a un ristorante.
Torniamo a Menabò. Come mai avete scelto questo nome per il locale?
É stata una scelta casuale, non casuale. Nel senso che noi avevamo in mente uno schema estetico molto funzionale sia per quanto riguarda lo stile di cucina, sia per quanto riguarda la presentazione dei piatti. Doveva essere tutto bello ma molto semplice, molto immediato, replicabile e anche in sala avevamo un’idea di estetica funzionale. Per farti capire: se mi serve una mensola deve essere bella, ma ci deve essere solo una mensola senza suppellettili, bamboline, arredi che non hanno alcun senso.
Lo stesso locale che abbiamo scelto è stato per un innamoramento per il pavimento in palladiano, quella che i muratori romani chiamavano “la coppa”. Una colata di materiale e di calce, dove si mettevano i pezzi avanzati delle lavorazioni del marmo e poi si arrotava con una macchina che la riportava alla lucentezza.
Il nome “Menabò” perchè nel momento in cui stavamo scegliendo un po’ gli arredi, mi trovavo a Torino al Gran Balon con mia moglie e stavamo guardando un mobile da tipografia in legno che aveva questa miriade di caratteri tipografici. C’è stato un po’ un tourbillon in cui mi è venuta in mente la tipografia, lo spartito, il mosaico, il lavoro di composizione, il Tetris, una serie di suggestioni. Questi incastri perfetti erano la sintesi di quello che volevamo esteticamente: armonia, ma senza la sovrabbondanza di elementi ornamentali. L’estetica del giornale se tu la vedi è un’estetica funzionale perchè la pagina è bella, però ha anche una gerarchia di pensiero che parte dal titolo in prima pagina fino all’inserzione pubblicitaria in fondo. Tutto ha un suo “peso”, una sua importanza. Questo per farti capire che noi avevamo un idea di ciò che volevamo, ma anche di ciò che non volevamo.
Il nome in realtà ha un’altra scatola cinese che è quella della provvisorietà: le pagine del giornale sono transitorie, la pagina cambia ogni giorno. E così è anche per il locale, perchè il pubblico, il contatto con il servizio di preparazione non è mai lo stesso, anche per gli incidenti di percorso, le incognite, le improvvisazioni. Menabò è una bozza, un tentativo, non è mai un primato definitivo.
Sul sito c’è scritto che è una trattoria resistente: alla fascinazione dell’estetica, alla mercificazione del tempo libero, agli imperativi che vincolano il nostro lavoro. Cos’è, quindi Menabò?
È una trattoria in cui ci facciamo quello che ci piace. Non necessariamente quello che ci si aspetta ne da una trattoria ne da un ristorante. In questo senso siamo un po’ un ibrido. Quello, poi, che troviamo un po’ noioso è la routine del lavoro del cuoco e dell’oste. È un’occupazione molto dinamica, molto empatica che però ha anche molti rituali e tanti schemi se vuoi.
Quello che non vogliamo è replicare quegli schemi fissi nella ristorazione e che dettano legge. Se il menu è stampato, è monolitico e non si può cambiare e la gente viene per quel piatto lì. È una distorsione del lavoro che noi non ci sembra etica ed economica e abbiamo scelto di resistere al fascino della prevedibilità di avere tutti i giorni quel menu. Questo evita anche di farmi spaccare in quattro per trovare tutto e farlo esattamente così come l’ho scritto e avere la libertà di dire a chi mi chiede “ah ma oggi non c’è questo piatto?” “no mi dispiace, oggi non c’è”.
In un posto come Menabò c’è posto per la tecnologia moderna?
La tecnologia e la modernità -e la modernità non è necessariamente tecnologica- ci sono senz’altro. C’è la bassa temperatura per cuocere in determinanti modi alcuni alimenti che danno il meglio utilizzando quella tecnica. Non è detto che l’abbattitore sia un congelatore di casa dove si stipa la merce per mesi. In realtà è uno strumento che porta alla giusta temperatura le preparazioni calde, ti permette di marinare il pesce senza rischi per il consumatore. È semplicemente un uso intelligente senza che questo prevarichi poi il discorso sensoriale che deve essere immediato e senza tanti giri di parole.
Ci serviamo della tecnologia nel momento in cui questa ci da delle risposte ad alcuni quesiti come conservazione, stoccaggio, ma non certo per dimostrare che abbiamo uno stile di cucina moderno o di rottura. Qualsiasi piatto può essere moderno. Banalmente anche un pollo in casseruola può esserlo, per il fatto che i grassi vengono trattati correttamente, che c’è una cottura ben eseguita, una salatura corretta, senza quindi uno sbilanciamento di sapori, grazie a una mano saggia, parsimoniosa. Anche questa è modernità, senza necessariamente ricorrere ai coadiuvanti di cucina, alle texture e a tutta una serie di strumentazioni che indubbiamente fanno parte della modernità, ma non è che ne hanno il monopolio.
Centocelle: scelta o casualità?
Avevamo l’idea di rimanere in quella zona perchè sapevamo che non è era zona particolarmente ricercata. Almeno 4 anni sapevamo che c’era una situazione di affitti a prezzi umani per degli spazi congrui per avere un’azienda di ristorazione. In realtà la vera è propria scelta non è stata solo funzionale agli spazi e i costi di locazione, ma a una rete che noi riteniamo essere un fattore fondamentale per il commercio – in senso positivo-.
C’è un senso di appartenenza, un’identità, c’è una dimensione nei locali che ti fa capire che dietro a un insegna ci sono delle persone che rispondono, ci sono delle persone che agiscono per conto proprio e questo mette la clientela più variegata anche in comunicazione tra loro. Questo fattore di rete è dato dal fatto che c’è una buona varietà di offerta, ci sono piccoli locali gestiti con un’identità, con la mano dei proprietari non per conto di altri.
Questo fa in modo che ci sia sempre un attenzione massima e la massima accoglienza nei confronti del cliente. Questo che sia per un aperitivo, a cena, un acquisto in bottega o quando scegli un cocktail. È il discorso di rete commerciale che a noi piaceva e che abbiamo fortunatamente trovato così come l’avevamo immaginato negli anni in cui abbiamo progettato questo locale e pensato di collocarlo a Centocelle.
Il lavoro di Oste, il vino e le lasagne del 25 aprile
La sala e la cucina sono elementi complementari, ma diversi?
Nì. Ti dico proprio “nì”. Penso che tutto il settore ristorativo è un settore fondato sull’accoglienza. Non vedo differenza tra uno chef patron del suo ristorante e un sommelier ad esempio. La cosa più bella di questo mestiere è proprio questo: tutto è accoglienza. Aldilà di presentare una bottiglia di champagne o un petto di anatra glassato con il proprio fondo, cose bellissime che gratificano il palato, c’è il piacere di passare la serata non per mangiare e nutrirsi, ma per godere della convivialità. Non c’è una cosa che non faccia parte dell’accoglienza.
Quando dicono “qual è l’importanza della sala e la cucina e in che percentuale”, io penso che è 100% responsabilità della cucina e della sala. L’accoglienza può essere intesa soltanto in questo modo qui. Noi siamo sempre lì, siamo sempre responsabili di quello che accade. Il lavoro dell’oste – perchè non è un ruolo, non è una divisa, è un mestiere, una professione- è quello di una guida che consiglia, che dirige la sala, da un indirizzo ben preciso. Costruisco l’identità del locale anche attraverso il rapporto con le persone guidandole. Quando rinnovo la carta dei vini lo faccio in base alle mie suggestioni, ai miei viaggi, alle novità che mi hanno colpito.
C’è una cosa che molto spesso i miei colleghi dicono e che non mi piace : “educare il cliente”. Io invece faccio una domanda preliminare che molto spesso non mi viene mai fatta quando vado a mangiare fuori, quando si parla di bere. Chiedo “che cosa vi va, che cosa vi piace bere” perchè deve essere prima di tutto un piacere. La cosa più importante è trovare la sintonia in quella serata in quel momento che magari proprio come il Menabò il giorno dopo cambia e la sintonia è su tutta un’altra cosa.
Come racconti il vino a un cliente? O come lo aiuti a scegliere?
Cerco di capire in base alle suggestioni che mi da una persona quali possono essere le variabili, perchè ovviamente non do mai una sola pista, ma do due o tre soluzioni. Ci vuole un po’ di tempo, anzi “perdo” tanto tempo ai tavoli. Porto le bottiglie, faccio assaggiare i vini in mescita. Alle persone devi dare degli indizi per scegliere. Molto spesso nell’indecisione, non conoscendo il mondo del vino, uno legge “chardonnay” e sembra una cosa facile e comprensibile. Di solito cerco di scoraggiare questo modo un po’ rinunciatario di parlare di vino.
Cerco sempre di suscitare nel cliente curiosità. Parto dall’abbinamento, dalle suggestioni, da un territorio, perchè dire solo “vino, fiano, aglianico” non significa nulla. Ci sono mille sfaccettature legate alla produzione anche di un solo territorio. É un discorso che si fa uno alla volta tutti i giorni. Non c’è uno schema fisso. L’abbinamento, vino bianco con il pesce, il rosso con la carne sono dei clichè se vuoi che funzionano per certi versi, indubbiamente. Io cerco sempre di capire le persone, cerco di capire cosa ha in mente il cliente. La prima cosa che mi preme sapere è cosa ha in mente e cosa gli va di bere.
È anche un modo per entrare in sintonia. Un po’ come quando la radio non prende il segnale e con la manopola cerchi la stazione. É questo che vorrei comunicare nel modo di presentare, di proporre il vino. Non è quella del guru che ha la bottiglia più figa di Roma. Non è questo. A noi ci piace capire che cosa uno si aspetta da noi quella sera, non per essere serviti, ma per essere in sintonia.
La pandemia ha cambiato Menabò?
Noi apriremo con i pochi coperti che abbiamo all’esterno, con il nostro solito protocollo: qualche piatto del giorno e tanto vino. Fino al 15 marzo con l’ultima chiusura abbiamo sempre lavorato facendo il nostro, senza inventare format, il “2.0”, il reinventarsi a tutti i costi. Penso che Menabò sia un locale abbastanza trasversale: un’osteria leggera con tanto vino, quindi adatto per gli amanti del vino e gli amanti della tavola. Abbiamo portato il ristorante a un pareggio che a Roma è molto raro: avere tanto peso in cantina, tanto peso, tanta identità, tanta manualità in cucina. Ti dirò di più: in realtà la sfida che abbiamo raccolto quando abbiamo aperto è stato quella di inventarcelo un po’, il mercato. Alcuni colleghi consigliavano di rimanere “pop”, altri ci dicevano “se hai in testa un progetto mettilo in pratica”.
Mi ha colpito molto l’iniziativa del 25 aprile in cui si poteva venire a prendere una lasagna per i nonni…
È un collettore di tutti i fattori di quest’anno un po’ anomalo. Intanto di non credere nella mediazione delle piattaforme di delivery, non credere nei format innovativi in virtù dei quali i ristoranti si mettono a fare panini, polpette, pizze sono ottimi prodotti ma che non hanno a che vedere con la trattoria. Volevamo fare il verso a questa cosa, e abbiamo fatto questa iniziativa gratuita per gli anziani per rinsaldare il patto tra generazioni.
Non volevamo mandare un messaggio politico sul 25 aprile, ma un messaggio di tradizione, di trasmissione di determinati valori, di coesione, di solidarietà, di amicizia tra una generazione e l’altra. Tutto questo poteva essere solo a titolo gratuito, non avrebbe avuto senso farlo anche a un prezzo simbolico. Era un’iniziativa non solo relativa ai nonni, ma anche al vicino anziano che magari gli può far piacere un giorno avere un piatto un po’ più ricco, di identificare un giorno di festa con una sorpresa vera e propria. Credo che non c’è niente di più sorprendente di qualcosa di inaspettato, e tutto questo prendendosi cura di una persona più grande.
Ultima domanda: cosa mangiavano Daniele e Paolo da piccoli…magari a casa della nonna!
Diciamo che il fil rouge se te lo posso dire così sono i sughi di carne, quindi lasagna, gnocchi di patate con sugo di spuntature e fettuccine al pomodoro e parmigiano. Sono i tre piatti iconici di casa.